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Federico Clavesana racconta “Lauramàra”

20/02/2023 @ 08:00 - 17:00

1) Lauramàra è una raccolta di poesie che segue però un percorso narrativo preciso: è dunque figlia di un progetto di scrittura, potrebbe riassumerlo brevemente?

Lauramàra è una raccolta di versi, ma è organizzata in modo tale da seguire un percorso, una narrazione. Non si tratta di un racconto nel senso proprio del termine, piuttosto di un dialogo a due voci: la voce narrante e quella di Azalais, la protagonista femminile, una voce silenziosa ma sempre presente, attraverso la quale leggere e rileggere la realtà. Lauramàra è la rievocazione e la trasfigurazione di esperienze reali, laddove la voce narrante dice quanto basta sapere su di me, mentre Azalais è la più viva espressione del mio ricordo di qualcuno che ho ormai perso.

Il dialogo tra i due ci accompagna attraverso una narrazione che parte dal ricordo. In primo luogo, si definisce il contesto: si tratta del nostro mondo, della nostra vita di tutti i giorni, della pandemia che ha saputo mettere a nudo, improvvisamente, tutte le nostre fragilità. Non si tratta unicamente di quelle legate alla malattia: i “giorni della febbre” del titolo fanno riferimento all’incapacità latente di dare senso al vivere, di tracciare un orizzonte di senso, che sta assumendo sempre maggior rilievo nelle nuove generazioni. Da questo punto di vista, “l’aria amara” degli ultimi anni è quasi una manifestazione, un’immagine di un disagio che stava già affacciandosi nelle nostre vite.

Azalais, che torna nei ricordi dopo anni di separazione, riemerge dal passato come l’immagine viva e come l’emblema di questa età fragile e controversa. Così ricordo Azalais anni fa, nelle sere milanesi sempre troppo occupate, e rivivo i nostri ricordi trasfigurandoli attraverso l’allegoria. Azalais, con tutte le sue fragilità, diviene il simbolo del presente; con le sue inquietudini e le sue fobie, si fa immagine di un’epoca e della sua delusione. Uso spesso l’immagine dell’oracolo, della sibilla, perché attraverso la sua “follia”, se mi è permesso questo termine, è come se intravedesse i presagi di qualcosa che ancora non vediamo. La precarietà del mondo e la fragilità dell’essere si fanno così palcoscenico per la sua ultima esibizione.

È attraverso i suoi occhi che vedo il disincanto di una generazione di cui, in fondo, anche io faccio parte. E, in fin dei conti, questo suo essere specchio di un’era e di tutti i suoi vizi è anche la maledizione di Azalais, pagata a caro prezzo. Una riflessione che resta, leggendo questi versi, può essere questa: se Azalais mai sfuggisse “ai giorni della febbre” e al suo destino di disgrazia, forse non potrebbe dare immagine e forma al suo presente, oltre che al mio. Se fossimo due persone qualunque, felici e senza nome, allora questa raccolta non sarebbe mai esistita, e forse neanche il mondo per come lo vedi ora.

2) Il contenuto dei suoi versi, e della narrazione a cui si faceva riferimento, tocca temi molto attuali, la pandemia, la solitudine, la fragilità psicologica delle generazioni di oggi, di cui è emblema proprio la giovane Azalais. Quale urgenza ha dettato la scelta di questi temi precisi?

Ogni scrittura è un processo di interpretazione e di re-interpretazione della realtà, per cui, a suo modo, è innanzitutto una lettura. È solo leggendo quanto ci circonda che possiamo metterlo per iscritto. Scrivere non è un gioco, ma è appunto un’urgenza, è l’urgenza di ricreare e di rivivere qualcosa che si è perso, è l’anelo a qualcosa che non è più. In fondo, scrivere è un surrogato di vivere, e non si può scrivere quando si è in pace con sé stessi. Aveva ragione Guido Gozzano quando affermava di guardare vivere sé stesso attraverso la propria scrittura.

In piena pandemia, durante il periodo del mio ricovero ospedaliero dopo aver quasi perso un occhio, di cui pure parlo nella raccolta, ho realizzato che, di fronte alla confusione determinata dalla malattia, dall’incertezza del futuro e dalla perdita di un senso comune, avrei potuto cercare di dare una forma alla complessità del “nuovo mondo”. Non avrei potuto farlo tramite un romanzo, che presuppone necessariamente una razionalità di fondo, né con un saggio, più o meno per le stesse ragioni; avrei però potuto farlo attraverso gli occhi di Azalais, attraverso i suoi turbamenti e le sue paure, e attraverso le sue maledizioni. Tramite il suo ricordo, che riemerge proprio quando l’aria “è amara”, trovo la forza e le parole per affrontare le tematiche della mia era.

Non avrebbe infatti più senso, oggi, scrivere di età morte da secoli o anche solo da decenni. La seduzione dell’“età dell’oro” può essere potente, ma è destinata a restare un’illusione. È solo parlando di oggi, ed è solo scoprendo e reiventando il presente, che è possibile dire qualcosa di veramente nuovo, e che non sia solo un esercizio di stile, come tanti oggi ce ne sono.

È solo così, quindi, che ho potuto parlare della malattia, della solitudine, della follia, dell’inerzia e, forse da ultimo, di un po’ di speranza. È solo così che ho potuto ritrovare Azalais, non in un altro mondo che non conosciamo, ma in questo, con tutti i suoi difetti e tutte le sue miserie. Di cui, chiaramente, anche noi facciamo parte.

3) La sua versificazione è molto musicale e la scelta del suo linguaggio denota una spiccata vocazione lirica, a tratti d’impronta classicheggiante, specie nei passaggi più evocativi. Lei guarda alla realtà di oggi attraverso composizioni che riecheggiano antichi poemi, forse anche del vicino oriente, e dal momento che la sua scrittura è fin troppo consapevole, verrebbe da chiederle: cosa, di questa sua lingua, gliela rende così congeniale? Cosa la rende congeniale a una narrazione così attuale?

La mia formazione risente di varie lingue e varie influenze. Il titolo Lauramàra viene dal provenzale L’aur’amara, una canzone di Arnaut Daniel, e significa appunto “l’aria amara”, a cui il contesto dà chiaramente un significato completamente diverso. Anche lo pseudonimo di Azalais viene dalla stessa lingua, una lingua che ha contribuito a creare in Europa una coscienza letteraria precisa, in grado di superare i confini dei regni e dei principati, come avevano fatto già il greco e il latino. Per le mie metafore riprendo i riferimenti di varie culture e civiltà, comunque note e parte del nostro bagaglio culturale, anche se talvolta ce ne dimentichiamo. Per esempio, come nelle culture classiche, la follia e la perdita di parte della vista sono legate al dono della profezia, alla trance estatica che porta a cogliere qualcosa del futuro, che attende un po’ più in là. Qualcuno, nel parlare della mia poesia, ha parlato di “mito-modernismo”, appunto perché rivedo il presente con le immagini della nostra tradizione; anzi, di varie tradizioni.

Forse perché, a ben vedere, alla caduta di ogni impero, la civiltà che sembra dissiparsi irrimediabilmente riemerge poi con il tempo riscoprendo le tracce del passato. Quando un impero cade, anni, decenni o secoli dopo, qualcuno troverà le orme di anni remoti e da qualche frammento sparso ricostruirà per quanto possibile il futuro, dando inizio a un nuovo corso. Allo stesso modo, il nostro impero sta cadendo, come del resto era chiaro anche solo guardando gli occhi di Azalais, che era come se, già da allora, presagisse le sue e le nostre sfortune. Il mio linguaggio, le mie scelte stilistiche, sono solo il modo per descrivere il presente che non sa più parlare di sé stesso, ricorrendo quindi agli strumenti e alle parole che meglio conosco.

C’è chi pensa che utilizzare la rima, l’adottare consapevolmente determinate soluzioni metriche, sia l’espressione di uno stile che guarda al passato. Lo è, certo, se è la mera riproposizione di schemi desueti, ma non se è la consapevolezza del suono, della parola, che in fondo è una via di mezzo tra la musica e la matematica. Si sa, del resto, che non si può fare musica senza conoscere le note, e allo stesso modo non si può fare poesia se non si conosce la metrica, non fosse altro che per infrangerla, per reinventarla, per innovarla, come ho cercato di fare io. Penso infatti che il mio modo di scrivere non guardi al passato, ma che al contrario guardi al futuro: se tutti si fermano al presente, letterario e non, che ristagna nel suo manierismo pensando di essere eterno, Azalais mi ha insegnato a guardare già oltre, a dopo la caduta dell’impero, in cui dovremo rimettere insieme le tracce della civiltà a partire da pochi frammenti che riscopriremo tra la polvere.

4) Quali sono, secondo lei, i motivi per cui un lettore dovrebbe leggere il suo libro?

Senza la presunzione di affermare che il mio libro sia migliore di altri (non è una valutazione che spetta a me), dirò alcune ragioni per le quali senza dubbio il libro è diverso dagli altri. In primo luogo, ho voluto che Lauramàra fosse l’immagine del nostro tempo, o almeno di una delle immagini che se ne possono dare: non si tratta dell’esperienza interiorizzante di sentimenti che, alla prova dei fatti, parlano solo a noi stessi, ma di descrivere quanto possibile la nostra vita comune, la nostra comunanza di aspirazioni tradite e di desideri mancati, e da lì, forse, pensare a una via per ricominciare.

In secondo luogo, proprio per il linguaggio. La poesia, oggi, si rende di fatto incomunicabile proprio per la volontà di libertà assoluta, di spezzare i vincoli e quindi i legami, e di rinunciare a ogni forma. Eppure, è la forma che rende visibile la sostanza, come è il corpo a manifestare l’anima, e non è quindi materia da disprezzare. Lo stesso potrebbe dirsi per i legami sociali: il miraggio di una libertà senza confini ci ha reso mondi isolati, individui che hanno la pretesa di bastare a sé stessi, che quindi hanno perso la possibilità di comunicare e di conseguenza la capacità di fare poesia. Cosa è la poesia se non la comunicazione di qualcosa che altrimenti non troverebbe il modo di esistere? È proprio per questo che ho detto che il presente non può descrivere sé stesso con il proprio linguaggio e con i propri strumenti, perché il linguaggio presuppone una dimensione relazionale che stiamo sistematicamente rifiutando. Il mio linguaggio, pur con i difetti che potrà avere, è un modo per ricominciare a comunicare attraverso la poesia.

Da ultimo perché io e Azalais siamo stati persone reali, prima di trasformarci in due voci. Ho camminato con Azalais per le strade di Milano la sera, quando eravamo giovani, e quando tutto era diverso, e con Azalais ho inventato tutte le speranze del mondo per un futuro migliore. Perché sono stato davvero in quella stanza di ospedale, a pensare ad Azalais che era ormai chissà dove, guardando il sole di maggio con l’unico occhio sano che mi era rimasto. Nonostante le nostre sfortune e tutto quello che ci ha diviso, consiglio di leggere il mio libro ai lettori perché, in fondo, io e Azalais potremmo non essere così diversi da loro.

Federico Clavesana
Lauramàra. Versi dai giorni della febbre
ZONA Contemporanea
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Data:
20/02/2023
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