Stefano Palladini ha dedicato la propria carriera artistica a rivestire di musica i versi dei poeti. Ora si presenta a noi direttamente come autore di versi, offrendoci un'ulteriore, inedita - e per molti inaspettata - casella di quel suo percorso a spirale che si muove inesorabilmente all'interno della Poesia. Questa sua opera prima è poesia del racconto, dolente ballata che sviscera il suo più recente e drammatico tragitto autobiografico, con disarmata ma altrettanto pudica sincerità. Di ritorno è un faticoso rimpatrio nel territorio della propria esistenza, i cui confini sono ancora tutti da ridisegnare.
DALL'INTRODUZIONE DI SERGIO SECONDIANO SACCHI. Stefano Palladini ha dedicato la propria carriera artistica a rivestire di musica i versi dei poeti, con la tenacia e il trasporto di un militante (della letteratura o della canzone non si sa, tanto è invisibile, se non addirittura impossibile, una demarcazione in tal senso allinterno delle sue composizioni).
A differenza di quei suoi pochi colleghi musicisti che percorrono saltuariamente anche se non sempre marginalmente, questo sentiero, Palladini, si cimenta in questopera con esclusiva dedizione e costanza quasi brevettabili; esattamente come ha fatto nella sua vita di insegnante, trascorsa nella volontà di diffondere il gusto per la letteratura
Il Novecento italiano non è un secolo molto esplorato dai nostri migliori musicisti di poesie, con la parziale eccezione di quelle dialettali. Gli autori più famosi si rivolgono molto spesso alle letterature straniere; non si sa se per quel tipico provincialismo di chi vuole essere a tutti i costi cosmopolita o per lofferta di grandi voci poetiche che il panorama internazionale è in grado oggettivamente di suggerire o, ancora, se per le difficoltà tecniche poste molto spesso da quelle scritture antimelodiche così tipiche nei poeti nostrani (per non dire dei linguaggi a volte compiaciutamente criptici). Forse per tutte e tre le motivazioni, ma è certo che questultima gioca un ruolo importante nelle scelte.
Se è vero che i documenti di poetica di Marinetti hanno raramente prodotto, almeno in Italia, autentiche pagine di poesia, è invece certo che alcuni degli effetti più palesi e duraturi della sua irruzione sul proscenio letterario italiano siano stati, per quanto riguarda la tecnica della versificazione, quello dellannullamento delle gabbie strutturali (rima, metrica, ritenute retaggi anacronistici di un remoto passato e, di conseguenza fatali principi di un linguaggio inidoneo alla comunicazione) e quello dellallontanamento da una ricerca della musicalità del verso quale fatidico veicolo di indulgente autocompiacimento estetico.
In altri paesi, invece, la frantumazione metrica non è stata così generalizzata, a volte nemmeno allinterno delle avanguardie, salvaguardando così, nella poesia stessa, una cantabilità. Cè una frase di Luis Aragon, in proposito, abbastanza illuminante, contenuta nella prefazione alledizione del 1966 del Roman inachevé: Eh sì, cari imbecilli, la poesia francese è innanzitutto canto (va sottolineato che, di tutti i poeti, Aragon è, non a caso, il più frequentato dagli autori di musica popolare).
Ma è curioso notare come il fascino per il verso lungo e non musicale sia stato, a volte, frutto di pregiudizi in seguito superati. Basta ricordare Cesare Pavese che, a proposito di alcune poesie inserite nella seconda edizione di Lavorare stanca, scriveva: Nei metri tradizionali non avevo fiducia, per quel tanto di trito e di gratuitamente (così mi pareva) cincischiato chessi portano con sé.
Personalmente non so quale sia il tipo di poesia che Palladini ama e quali autori preferisca; conosco invece la poesia che ci ha fatto amare nelle sue canzoni (e a volte anche attraverso esse, spogliandole, da consumato insegnate di lettere, di tutta la distanza letteraria che la scuola solitamente regala e restituendo lattualità emotiva capace di parlare allo stato danimo). Vale la pena di ricordare che di queste sue scelte ha persino scritto, con la consueta sagacia, anche un personaggio solitamente svincolato dal commento critico come Paolo Conte.
Una cosa è certa: Palladini ha sempre prediletto, fosse anche per il solo fatto di doverli musicare, poeti (da Pascoli a Saba, da Gozzano a Pavese per quanto riguarda il Novecento italiano) che si sono espressi attraverso metrica e ritmo, trasmettendo quindi una poesia mai urlata e sempre sussurrata, costruita su versi che avevano, già in partenza, una loro spiccata musicalità, a volte dalla cadenza frizzante e altre dalla tonalità sommessa. (...)
3.
Pomeriggio di lucida follia,
lidea funesta è quella di scappare,
mi chiudo in una stanza a casa mia,
sperando che mi vengano a cercare.
Ho minacciato la donna che amo
ed ora sono immobile, intontito,
vorrei parlarle e invece non la chiamo,
possibile che sia tutto finito?
Ricordo solo un fuoco che mi afferra,
lamico che mi porta il suo soccorso,
voci confuse e un suono dambulanza.
Credo di stare ancora sulla terra,
non provo niente, nemmeno rimorso,
dovè il mio letto, dovè la mia stanza?
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